di Marco Delpino
Nel 2000 fu istituita la “Giornata della Memoria” (per ricordare il genocidio degli ebrei) e nel 2004 il “Giorno del Ricordo” (per ricordare i martiri delle “foibe titine”).
Entrambe le giornate hanno lo scopo di non far dimenticare tutte le vittime innocenti delle guerre e dell’odio raziale e, ancora una volta, per farci comprendere e far capire alle giovani generazioni di come gli orrori delle guerre debbano essere cancellati su questa nostra terra, al fine di poter stabilire quei rapporti di pace, convivenza, dialogo e solidarietà tra gli Uomini.
Per anni, però, su queste tragiche vicende, calò il velo di un imbarazzante silenzio, dovuto a “motivi di opportunità” o, peggio, a inconsapevoli “ragioni di stato”. La Germania era nostra alleata, quindi non conveniva insistere sul genocidio. La Jugoslavia era nostra dirimpettaia, quindi conveniva tacere, anche se le frontiere (con la “cortina di ferro”) erano tenute ben difese. E poi, in entrambi i casi, ce lo chiedeva l’America… e ce lo chiedeva anche l’Europa.
Così, dal 1960, le stragi nazifasciste furono archiviate nell’armadio della “vergogna” e furono scovate soltanto nel 1994…
Così dimenticammo pure che nei due anni successivi all’occupazione nazista della Venezia Giulia, conseguente all’armistizio dell’8 settembre 1943, Venezia Giulia e Istria vennero occupate dall’esercito comunista del maresciallo jugoslavo Josip Broz “Tito”, il quale consentì persecuzioni e soprusi nei confronti degli italiani residenti nella regione, considerati potenziali o presunti oppositori o nemici del suo regime. La violenza del regime di Tito si abbatté sui militari, sui fascisti e, soprattutto, sulla popolazione civile contraria all’annessione alla Jugoslavia e alla dittatura comunista, fino a configurare una vera “pulizia etnica”: nostri connazionali furono affamati e vessati in campi di prigionia o gettati nelle foibe, profonde gole carsiche presenti nella Venezia Giulia, senza processo. Trovarono la morte tra 6.000 e 9.000 italiani. A tale massacro seguì l’esodo giuliano-dalmata, con un’emigrazione forzata dalla propria terra che coinvolse tra 250.000 e 300.000 Italiani.
Anche le stragi nazifasciste furono “archiviate” nella memoria.
I 2000 fascicoli, provenienti da tutta Italia, riferiti a 695 procedimenti e conservati in voluminosi faldoni, erano relativi a centinaia di crimini che, complessivamente, causarono molte migliaia di vittime innocenti tra la popolazione civile (si stima una cifra di circa 15.000 morti), spesso donne, anziani, bambini, vittime di una violenza inaudita.
L’omessa trasmissione, l’anomalia della procedura di archiviazione provvisoria e l’occultamento dei fascicoli impedirono alle Procure Militari competenti di procedere verso gli autori delle stragi.
In quel vecchio “armadio”, i faldoni furono “dimenticati” per anni, a partire dal 1960. E le ragioni di queste “omissioni” furono molteplici: la mutata situazione internazionale, la “guerra fredda” e la conseguente esigenza per l’Occidente di attribuire un ruolo difensivo antisovietico alla stessa Germania sconfitta, la necessità di “sacrificare” la giustizia per salvaguardare la pace, nel quadro di nuovi equilibri internazionali fra due blocchi di potenze contrapposte.
Crimini verso l’umanità commessi non durante scontri bellici, e neppure durante battaglie, ma senza alcun processo e in presenza di svariate torture.
Per fortuna, le verità vengono sempre a galla e restano a testimonianza degli orrori, anche se purtroppo, sovente, la Storia non sempre è Maestra di vita.