CinemItalia.Recensioni. “TRE CIOTOLE ”, IL SENSO AUTENTICO DELL’ESISTENZA

C’è un prima e c’è un dopo quando qualcosa di enorme accade nella nostra vita, qualcosa capace di spezzarne la linearità determinando una soluzione di continuità che sempre ci coglie impreparati. Cosa può esserci di così enorme? La fine di un amore ad esempio, come succede a Marta la protagonista del film “Tre ciotole”, interpretata da Alba Rohrwacher. Tu credi che sia il peggio che ti possa capitare e ti lasci andare a mangiar male, a isolarti dal mondo, a finir di parlare con l’immagine di un poster, come fa Marta. E invece al peggio non c’è limite e lo scopri quando ti viene diagnosticato un male incurabile in fase avanzata, nessuna possibilità di guarigione, qualche mese di vita.
Il film della regista spagnola Isabel Coixet, liberamente tratto dai racconti di Michela Murgia, ci porta a riflettere su come un essere umano, una donna in questo caso, può reagire di fronte a un verdetto simile e scoprire che non sempre è la disperazione a prendere il sopravvento. Esiste anche la possibilità di far del tempo che ti rimane qualcosa di prezioso, dar valore alle piccole cose che ti circondano, ai giorni contati che ti restano da vivere.
Non è necessario scomodare il filosofo Heidegger e la sua teoria sull’essere-per-la-morte per comprendere il senso del film, anche se fu Heidegger a sostenere che è la consapevolezza della propria finitezza a rendere l’uomo “autentico”, spingendolo a dare un senso alle proprie scelte. Il film non cita, non teorizza nulla, mostra soltanto ciò che può accadere. Sapere che ti rimane poco da vivere ti libera dalle convenzioni, dalle aspettative degli altri e ti rende libero di essere finalmente l’individuo che sei. Il tuo rifiutarsi di fingere, di evitare ciò che non ti piace, non è più un atteggiamento che ti viene rinfacciato con un rimprovero ma un modo di essere che finalmente gli altri accettano di te.
C’è molta Michela Murgia in tutto questo, la sua esperienza tradotta in una storia da raccontare. Alba Rohrwacher, così lontana dall’esuberante mediterraneità della scrittrice, ce la fa rivivere portando dentro al personaggio anche un po’ di se stessa. Elio Germano, nella figura del marito Antonio, ci sembra uno di noi. È facile stare dalla sua parte condividendo il senso di attaccamento al lavoro, della lotta infinita per realizzare un sogno e possiamo capirlo quando il rapporto con la moglie si logora perché ciò che la rendeva unica, affascinante nella sua originalità, con il passare del tempo si trasforma in difetto.  Capita.
Così noi spettatori ci sentiamo a tratti Antonio e a tratti Marta, viviamo con loro una storia di coppia piuttosto frequente e possiamo da entrambi trarre lo spunto per capire meglio noi stessi.
La regia non indugia sulla malattia ed evita i facili pietismi, non vuole commuovere per far botteghino ma far conoscere il messaggio che Michela Murgia ci ha lasciato con il suo libro. Chi vuole lo può cogliere e magari riflettere sulle proprie scelte senza necessariamente passare per la stessa esperienza. È in fondo questo il bello dei film, dei libri, ci regalano il vissuto di mille esistenze oltre la nostra, sta a noi farne tesoro.
Ci sono critici che non hanno mancato di rilevare alcune mancanze nella regia di Isabel Coixet, alcune eccessive pretese. Va bene, lasciamo a loro questo compito perché è il loro mestiere. Noi,  da semplici spettatori, ci accontentiamo di riflettere su ciò che il film ci ha lasciato, compreso il sorriso nel sentir raccontare, a titoli di coda avanzati, la barzelletta su Marx.

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