ASMARA E OLTRE: istruzioni per sorprendersi (16/23)

di Maria Antonella Pratali

Sedicesima puntata – Il camionista, il prete e i bambini del pane

Nel locale con diversi tavoli e un bancone per la mescita, un ventilatore a soffitto smuove l’aria torrida. Sotto le pale, un omone in maglietta e bermuda attacca con metodo un cosciotto di capretto, dopo averlo intinto nello shirò, accompagnandolo con pezzi di injera e zighinì. Il piatto che ha davanti è enorme e stracolmo. Dubito che riuscirà a mangiare tutto, visto anche il caldo che non favorisce l’appetito.
Ci osserva con grandi occhi prominenti e arrossati, poi ci fa spazio, in italiano ci invita ad accomodarci, il sorriso mostra denti grandi. Chiede i nostri nomi. “Ah, mi piace il nome Antonella”. Ho un brivido. Ci racconta, mezzo in italiano, mezzo in tigrino, di essere un camionista. Sta trasportando un grosso carico da Massaua ad Asmara. Suo nonno aveva lavorato con gli italiani, “Talian, gente simpatica, bravi lavoratori”. Poi sono arrivati gli inglesi, poi il Derg. Non fa commenti politici sul governo attuale.
Intanto S. e G., attirati dal profumo del suo piatto, ordinano lo stesso: capretto e shirò. Io faccio onore a tre pomodori con un pezzo di pane.
Chiacchiera che ti chiacchiera, il gigante completa il fiero pasto, il mesob (il piatto di metallo su cui è servita l’injera) è lucido come se fosse stato già lavato. Mostrandoci un’ultima volta i suoi grandi denti, si congeda e si rimette in viaggio. Come farà a digerire tutto, aggrappato al volante, tra tornanti e curve a gomito?
Poco dopo ripartiamo anche noi e ci godiamo il cambiamento del paesaggio, che diventa via via più verdeggiante. Colpiscono i terrazzamenti scavati nei ripidi pendii per far spazio alle attività agricole. Che fatica devono aver fatto quelle schiene!
Per strada, ci fermiamo brevemente per dare un passaggio a un prete ortodosso, riconoscibile dal saio e dal tipico copricapo alto e cilindrico, il kalimavkion. Tra tutte le persone che abbiamo accolto a bordo, lui è senz’altro il più riservato e silenzioso, al punto da raggelare un po’ l’atmosfera. Per fortuna deve scendere di lì a poco.
Ancora una tappa poco prima di arrivare alla capitale, per ammirare dall’alto la ferrovia che collega Asmara a Massaua. Si tratta di un’opera ciclopica, realizzata dagli italiani tra il 1887 e il 1932; costituì per quel tempo un’impresa di grande valore ingegneristico, dato il territorio attraversato, particolarmente difficile nelle zone di montagna, e il grande dislivello tra la capitale (2.325 s.l.m) e Massaua. Fu danneggiata e interrotta durante la guerra di liberazione negli anni Settanta, caduta in disuso e poi ripristinata. Attualmente non è in funzione, per l’impossibilità di affrontare gli alti costi degli interventi di manutenzione.
Mentre osserviamo dall’alto, da una casupola poco sotto la strada arrivano due bambini a chiederci con discrezione se abbiamo del pane. Gli diamo tutto quello che ci è rimasto. Sarà pur vero che in Eritrea nessuno muore di fame, grazie anche agli aiuti forniti dallo Stato ai più poveri, ma questi due bambini, tra gli otto e i dieci anni, non ci hanno chiesto caramelle o cioccolatini.
Col cuore gonfio e molte domande ci rimettiamo in macchina, silenziosi.
L’acqua che avevamo a disposizione è finita da un pezzo, anche perché per strada ho dato l’ultima bottiglia a un giovane pastore che ne chiedeva. Ne aveva più bisogno lui di noi. Così ci fermiamo in un paese prossimo alla capitale, pieno di giovani che ascoltano musica e chiacchierano tra loro. Una coppietta si prende per mano e si apparta.
Approfittiamo dell’ultima tappa per indossare abiti più adatti alle temperature dell’altopiano. S. recita un rosario di imprecazioni contro una cerniera che non vuole funzionare. Nell’impossibilità di aiutarlo, lo aspettiamo al bar, dove plachiamo la sete con “mai gas”.
Tornati ad Asmara, in albergo ci rimettiamo in sesto e ci prepariamo per un’ottima cena eritrea.
E mentre il sole si spegne su Asmara, penso che forse è proprio questo il vero tesoro del viaggio: gli sguardi incontrati, i silenzi condivisi e quella strana magia che si accende quando la sabbia del deserto incontra il fresco dell’altopiano. Un attimo sospeso, un respiro profondo, e la certezza che ogni viaggio è anche un ritorno a casa, dentro di noi.

(Continua. Acquisti e nuovi incontri ad Asmara)

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