di Maria Antonella Pratali
Presentato nella sezione “Lungometraggi”, il film di Achille Ronaimou ci cattura fin dalla prima scena: un volo sopra N’Djamena, capitale del Ciad, introduce lo spettatore in un caos urbano che non è semplice sfondo, ma un terreno vivo e brulicante di veicoli, polvere e umani in cui si destreggia Dane, autista per una ONG.
Semplice e onesto, conduce una vita modesta ma serena, con un lavoro stabile, una moglie in attesa del loro primo figlio, un’esistenza che appare come un’oasi nella frenesia della città.
Tutto si spezza in un istante quando, distratto da una telefonata del capo, investe un bambino che attraversa la strada all’improvviso. Sconvolto, lo porta subito in ospedale, e il giorno dopo scopre che è morto.
È l’inizio di una discesa agli inferi: la prigione, lo stigma, la richiesta della famiglia della vittima di applicare la diya, il prezzo del sangue; Dane dovrà versare una somma per lui irraggiungibile, altrimenti sarà qualcuno della sua famiglia a dover morire.
Il film segue il protagonista nei suoi tentativi disperati di trovare una via d’uscita, conducendo lo spettatore attraverso villaggi e città, uffici pubblici dove il confine tra legge e tradizione, giustizia e corruzione è labile.
La recitazione di Ferdinand Mbaissané è uno dei punti di forza del film. Intorno a lui, molti attori non professionisti riescono a donare credibilità e incisività alle scene.
“Diya” affronta temi universali: la fatalità, il destino, la giustizia, il peso delle tradizioni, il senso di colpa, la difficoltà di essere creduti e perdonati, ma lo fa nel contesto del Ciad, mostrando la complessità di un Paese di cui poco o nulla sappiamo.
Sicuramente una delle opere più rilevanti del Festival, è un film che dimostra che il cinema africano è una delle voci più urgenti e interessanti nel panorama contemporaneo. Un film da vedere, discutere e ricordare.