Romanzi e scrittori: chi ha impiccato il passero solitario?

Witold Gombrowicz, il più grande scrittore polacco del Novecento, rapida meteora nel cosmo della letteratura

 

di Gianfranco Andorno

Nel 1957 avviene il disgelo di Gomulka e con esso, per esso, la pubblicazione delle opere di Gombrowics. I libri hanno un tale successo che il governo polacco si preoccupa: li vieta e censura notizie sull’autore. La nota grottesca è che gran parte della sua produzione letteraria l’ha creata tra gli anni trenta e quaranta. Nel 1939 Witold si reca in Argentina dove a causa della guerra resterà per ventanni. Quando finalmente con enorme ritardo si conosceranno le sue commedie si vedrà in lui il padre del teatro dell’assurdo, di Beckett e Ionesco. L’autore non è d’accordo: “Questi due nomi maledetti divorano le critiche ai miei lavori teatrali.” E più avanti lamenta: “Nessuno potrà affermare che la mia ispirazione nasce dalla teoria sartriana dello sguardo altrui.” Si scrolla con vigore d’addosso i colleghi coinvolti che lo importunano. E li insulta. Sartre? Un ometto triste.

Il critico Kijowski lo accontenta: “Istituisce la realtà come mito allo scopo di scomporla. Sostituisce il pensiero con lo stile.” Ahimè intervengono altri e scomodano la parodia di Shakespeare, l’affinità e l’echeggiamento di poetiche da Pirandello a Brecht. Insistono con Freud che lui non conosce.

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Witold Gombrowics afferma che l’uomo indossa una corazza di ideologie, formalismi, che lo rende prigioniero. Un’armatura che invece di preservarlo gli impedisce di vivere libero, lo rende vittima di strozzamenti creati da lui stesso. A lui si unirà Arbasino che invoca libertà individuale affrancandosi dal fardello della forma, di “essere se stessi molto di più”. Per Gombrowics la forma è un dramma, nello scrivere avviene una lotta tra la forma e il contenuto.   Considera i suoi romanzi macchine infernali che si distruggono nel crearsi. La sua fuga dal contenuto ricorda l’arte astratta.

Intorno agli anni Sessanta scrive “Cosmo”. Prima di affrontare il suo contenuto subiamo gli avvertimenti dell’autore che si specifica “anti-letteratura”. E del libro: “Un romanzo giallo è il tentativo di organizzare il caos. Il mio Cosmo sarà un racconto giallo.” Ancora: “E’ un’indagine sull’origine della realtà. E infine, molto criptico: “C’è nella coscienza qualcosa che la trasforma in una trappola per se stessa.”   Macchie nei muri sorgono dal nulla a formare frecce che ci indicheranno il percorso. Due uomini camminano nella calura della campagna, sono Fuks e l’autore. Ma attenzione questo c’è e non c’è, si sdoppia, ricorda Hitchcock che compariva nei film, incombeva, e spariva. Riprendiamo i due sudati camminatori fermi per una visione: un passero impiccato. “Il capino reclinato e il becco aperto.”

Noi eruditi lo conosciamo il passero solitario. Uccide il giorno e la giovinezza con Leopardi, sta nella torre avita a suonare l’organo con la monaca e il Pascoli, garrisce allegro a Bolgheri con il Carducci. Dopo aver tanto svolazzato nelle pagine e nelle scuole qui fa una brutta fine. Ed è l’indizio che apre la grande caccia all’omicida, seriale perché c’è anche la spoglia di un gatto e altri. Qualcuno ha immaginato nei due personaggi gli investigatori Sherlock Holmes e Conan Doyle. Questi vanno a pensione e conosciamo i tenutari. C’è il direttore Leone, ex bancario, e le donne Lena e Katasia. Bene, la vicenda si snoda. Niente affatto. C’è l’ostacolo delle buche che accidentano il percorso, con lo sprofondamento di tutti anche di chi legge. Nelle fenditure ci sono cosmi che nulla hanno a che fare con la trama. Anche Proust si perde ma per pigrizia, combatte con la memoria, con il tempo che corre troppo. Witold invece scende nell’abisso e si abbandona al suo raffinato erotismo, perlustra con infinita lentezza le bocche. Oppure passa in rassegna la minutaglie e la elegge regina.

Questo ci mette in ansia. Quanta inutilità c’è nelle nostre vite? Ci riconosciamo nelle cianfrusaglie nonsense del fare. Quanto sprechiamo dell’essere, nell’essere? Insomma, l’autore non vuol fare letteratura, una sfida, un duello. E il lettore un po’ partecipa e un po’ è vittima inerme. E incontriamo l’uomo con le scarpe gialle che penzola tra gli arbusti, la donna muta e deturpata. I letti cigolano impetuosi. C’è incesto? “Che ne sapevano queste bocche delle bocche che serbavo segretamente in me?” E: “La chiesa. L’inferno. La sottana. Il peccato… Il gelo del confessionale.” E l’autore infila un dito nella bocca del prete!

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Come si fa per ogni buon giallo non si rivela il colpevole, ma ci sarà un colpevole? Noi supponiamo che non è il cameriere, come sempre, ma il fascinoso Caos che è responsabile di tutto anche dell’ordine.

Witold (l’autore) suggerisce a Witold (il personaggio) la battuta conclusiva: “E oggi a pranzo c’è stato pollo in besciamella.” Questo è un fatto concreto che si contrappone a quello ipotetico dell’attesa vana di Godot del Beckett. Eppure sembra che Gombrowics abbia mangiato il pollo, pranzato, con Godot. Banchettano nell’albergo dell’assurdo, del surreale. I lettori non sono invitati. Witold Gombrowics, 1904 e 1969, il più grande scrittore polacco del Novecento, rapida meteora nel cosmo della letteratura.

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