“Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini, presentato lo scorso anno fuori concorso all’81^ Mostra del cinema di Venezia, vince cinque Nastri d’Argento 2025, fra i quali miglior film e migliore sceneggiatura.
La pellicola è di fatto un omaggio dedicato a Luigi Comencini, non solo per il suo lavoro di regista ma per il suo mestiere di padre, un mestiere difficile che ciascuno interpreta come sa e come può, sotto l’occhio vigile dei figli.
A realizzare questo film non è stata la figlia più famosa, Cristina, ma la meno nota Francesca Comencini che ha deciso di raccontare il padre Luigi raccontando sé stessa in una fase difficile della vita. Il forte legame padre-figlia e l’attrazione per la magia del cinema, fondendosi, diventarono per lei l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi per dare un senso alla vita, per inventarsi un futuro quando tutto ormai sembrava perduto.
Portando sullo schermo il suo difficile passaggio dall’infanzia all’età adulta, la regista ha privilegiato interni sobri, minimalisti, quasi ascetici, contrapposti ad esterni di set cinematografici strabordanti di colori, luci, rumori, movimenti. I primi sono i silenziosi testimoni delle paure di una bambina e delle sofferenze di giovane donna, mentre i secondi sono il fantasmagorico contenitore di fantasie dove tutto è possibile, dove l’immaginazione diventa rifugio per chi si sente a disagio nella realtà.
Il senso di fallimento della figlia non è estraneo al padre, che proprio per questo è in grado di comprendere a fondo il suo malessere. La scelta di condividerne i momenti più bui diventa l’unico modo per trovare una luce in fondo al tunnel, per riprendere in mano la vita, la vita di entrambi, perché l’una non può prescindere dall’altra.
Ciò che il film insegna è l’importanza di esserci quando l’altro ha bisogno di noi, senza troppe parole, esserci quando serve e per tutto “il tempo che ci vuole”.
La regista ha dichiarato in un’intervista «l’ho pensato come un film che da questa storia personale parli a tutti, raggiunga un carattere di universalità».
Di “particolare” c’è il cinema con la sua magia, con il suo valore terapeutico, con la possibilità che offre di abitare altri mondi, di vivere altre storie.
Di “universale” c’è il legame con chi ami, con le sue asperità caratteriali, con la sua salvifica vicinanza e comprensione. Sai che c’è, che ci puoi contare, e sai anche che devi meritarti la sua fiducia. Di “universale” c’è anche l’insegnamento di considerare i fallimenti come parte integrante della vita, come le malattie o gli incidenti. Si prova, si fallisce, si ricomincia per far meglio, sempre guardando avanti.
“Il tempo che ci vuole”, ha messo in luce il talento di Francesca Comencini e ci lascia un messaggio importante, quello di un padre-regista che, pur amando appassionatamente il suo mestiere, afferma con convinzione «prima la vita, poi il cinema! E se non lo capisci è inutile che lo fai il cinema».
Nastri d’argento meritati per Romana Maggiora Vergano, che interpreta Francesca, e soprattutto per Fabrizio Gifuni, come “Miglior attore protagonista”, nella parte di Luigi Comencini.
1 commento
[…] Francesca Comencini costruisce un racconto autentico e autobiografico, ripercorrendo dall’infanzia alla tardo-adolescenza il suo rapporto con il padre, Luigi Comencini (vd. recensione del film https://italiasara.it/2025/06/16/cinemitalia-recensioni-il-tempo-che-ci-vuole-si-aggiudica-cinque-na…). […]