Lo Stretto di Hormuz è un passaggio obbligato per l’energia globale. E se una bomba cadesse proprio in quello stretto?
di Antonio Bovetti
Alcune valutazioni sullo Stretto di Hormuz e quel che sta succedendo in questi giorni: questo spazio di mare, nel suo punto più stretto, misura trentatré chilometri tra la penisola araba a Sud e l’Iran a Nord. Le corsie per le navi in entrata e uscita nelle due direzioni sono larghe tre chilometri ciascuna: per ogni portacontainer ci sono “corsie” di non oltre tre chilometri: È in questo breve corridoio transita il 30% del greggio destinato al mercato mondiale. È lì che si incrociano rotte strategiche e fragilità geopolitiche. Domenica 15 giugno alle ore 18 mentre missili e droni si alzavano in volo tra Israele e Iran, circa 500 navi, petroliere, portacontainer e mercantili, erano concentrate in quell’area. Dalla foce del Tigri e dell’Eufrate, nei pressi di Bassora (Iraq), fino alla costa dell’Oman, quel braccio di mare è oggi il collo di bottiglia dell’economia energetica globale. Più di un terzo del petrolio mondiale (proveniente da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Iraq e Iran) e oltre un decimo del gas liquefatto (soprattutto da Qatar, Iran e Arabia Saudita) passano da lì ogni giorno. E più dei due terzi del traffico marittimo nello Stretto è composto da petroliere. Anche solo il sospetto che l’Iran possa ostacolare la libera circolazione delle navi, come ritorsione per eventuali attacchi israeliani, sarebbe sufficiente a far schizzare alle stelle i prezzi del petrolio e del gas. Un’Europa già sotto pressione per i dazi americani e per la guerra in Ucraina rischierebbe di ritrovarsi intrappolata in una spirale di inflazione e stagnazione. Lo Stretto di Hormuz è il simbolo di una globalizzazione che viaggia su rotte vulnerabili, sotto minaccia costante. Basta un drone, un missile, o anche solo una dichiarazione incendiaria, per alzare il prezzo della benzina, e di conseguenza, rallentare i mercati e cambiare le priorità politiche di mezzo mondo. Da qui, da questi pochi chilometri di mare – è solo la nostra modesta ipotesi – si misura il grado di instabilità del nostro tempo. E si capisce che non esistono più “crisi locali”: ogni tensione si riflette ovunque, anche nei nostri portafogli – che si svuotano con la sola spesa giornaliera – e anche nei costi del riscaldamento delle nostre case per il prossimo inverno. La futura pace passa anche da queste rotte …purtroppo…